Thamaia: Comunicato Stampa Giarre

La mattanza non si ferma. Rosaria Parisi, da tutti conosciuta come Sara, è stata uccisa dal suo ex marito. E’ stata uccisa dalla gelosia.
Non era una tipica storia di maltrattamenti fisici o psicologici, quella di Sara. Non era la tipica storia di stalking. Era però una storia di possesso, di controllo, di gelosia, seppure ad intermittenza.
Sara era già separata di fatto dal 2012 e, come aveva sempre fatto, continuava ad occuparsi amorevolmente dei figli e dei propri anziani genitori, lavorando per tutta la famiglia. Il marito però non si arrendeva alla fine della relazione e per tutto l’anno successivo aveva continuato a tormentarla, non riusciva ad accettare che lei potesse avere una vita senza di lui. Nel 2014, Sara sporgeva denuncia per ingiurie e minacce a seguito di un episodio per il quale il marito riporterà condanna solo nel 2018. In quel periodo l’ex marito poneva in essere una condotta persecutoria, seguendola, telefonandole, minacciandola di morte se mai avesse frequentato qualcuno, tanto da indurre Sara a sporgere querela. Forse per quella denuncia, forse per l’inizio del procedimento precedente, forse perché ormai si era avviata la separazione legale, l’uomo sembrava essersi rassegnato, non la seguiva più, non le telefonava più, non le rivolgeva nemmeno la parola o il saluto.
L’ossessione dell’ex marito nel controllare Sara, dunque, negli ultimi tempi sembrava scomparsa ma in realtà (ahimè adesso lo sappiamo) era nascosta, sopita.
Sono tante le domande.
A distanza di tre anni era forse prevedibile?
E se sì, come avrebbe potuto evitarsi?
Esiste forse una norma che consente alla Giustizia di sottoporre un uomo a una misura restrittiva applicabile anche quando le condotte cessano ma resta l’intenzione nella mente del femminicida?
C’è un modo per controllare questa intenzione?
Dobbiamo davvero cercare un colpevole che non sia l’ex marito?
E se i colpevoli fossimo tutti noi, quando giustifichiamo la gelosia, quando diciamo che “la gelosia è il succo dell’amore”, che “se non è geloso non ti ama”, che “la gelosia e il controllo non sono altro che la voglia di riconquistare la donna perduta”, e così via?
Colpevoli anche di chiedere, in questi giorni, se “davvero” Sara avesse una nuova relazione, come se tale circostanza fosse rilevante: sono proprio le domande come questa che dimostrano come “colpevole” sia la nostra cultura e la nostra mancanza di volontà nel volerla cambiare.
Se ci pensiamo bene, i femminicidi hanno TUTTI una matrice comune da rinvenire nel patriarcato, nel potere maschile sulla donna. La maggior parte viene attuata in maniera prevedibile, frutto di un crescendo di violenze fisiche e psicologiche. Altri però, e non pochi, vengono attuati in maniera subdola, silenziosa, frutto dell’ossessione per il controllo e per la gelosia. Nei confronti di donne che volevano solo essere lasciate in pace, “essere libere”. Così è stato anche, ad esempio, per Stefania Noce e per Veronica Valenti.
Dovremmo, allora, puntare il dito su quanto possa essere pericolosa la possessività.
E, ancora una volta, puntare il dito sul cambiamento culturale, l’unico che può aiutarci anche in casi come quello di Sara. Dobbiamo impegnarci per far crescere i nostri figli e le nostre figlie insegnando l’equilibrio nelle emozioni e nell’amore; insegnando che la cosa più bella dell’amore, che rende più felici entrambi, è la libertà.
E dunque, se vogliamo fare un appello alle Istituzioni, è quello di non perdere mai di vista le azioni di sensibilizzazione nelle scuole e in tutti i luoghi deputati alla crescita dell’individuo e della società civile.
Le azioni di formazione degli operatori della Giustizia e delle Forze dell’Ordine, dei Servizi Sociali, degli Ospedali e di tutti i luoghi istituzionali coinvolti.
Le azioni di formazione e sensibilizzazione degli operatori privati e dei professionisti, singoli ed in forma associata, in modo che abbiano maggiori e migliori strumenti di valutazione.
Ancora, ai mezzi di comunicazione, l’appello è affinché non perdano mai di vista il linguaggio da utilizzare, le valutazioni da fare in questi casi, i soggetti da intervistare, le domande da porre. Perché il linguaggio veicola concetti, e i concetti errati bloccano quel cambiamento culturale che occorre invece coltivare.
Al momento, non resta che stringerci al dolore della figlia, dei figli e dei parenti tutti, in un rispettoso silenzio.